Sanremo 2022, Laccio: «L’arte di costruire una scena intorno a un artista»

Ha curato il quadro di Laura Pausini durante la seconda serata del Festival e ha lavorato all’estero e in Italia con i più grandi, come Paolo Sorrentino. Così Laccio si racconta.

Un ricordo che prende forma e colore attraverso tanti piccoli astri che, pian piano, iniziano a illuminarsi per comporre una storia; un’intelaiatura prima avvolta dall’oscurità e poi scoperchiata come se fosse una scatola ricolma di desideri assopiti e meraviglie inattese. È questo lo show al quale Laccio, al secolo Emanuele Cristofoli, ha pensato per accompagnare la performance di Laura Pausini a Sanremo sulle note di Scatola, la sua ultima hit scritta per lei da Madame, un brano attraverso il quale la Laura adulta incontra la Laura bambina suggerendole la strada giusta da percorrere, facendosi largo nella costellazione di ricordi e di emozioni che, durante la performance, è riuscita a circondare la sua sagoma. «Le ho detto che, anziché chiuderci in una scatola, sarebbe stato bello immaginare di aprirla, pensando a uno Shanghai caduto in maniera armonica», racconta Laccio, uno dei giovani direttori artistici e coreografi più promettenti sulla piazza, al telefono da Sanremo, spiegandoci che la performance live della Pausini non l’ha seguita dall’Ariston, ma dalla Green Room. Lo stesso posto dove, probabilmente, seguirà anche l’omaggio a Raffaella Carrà che vedremo a Sanremo durante la finalissima di sabato 5 febbraio.

Come mai?
«Non sono voluto entrare in teatro perché mi creava tensione: ho preferito guardarlo in tv come l’avrebbero guardato da casa. Una performance in diretta è sempre un punto interrogativo, ma più andavano avanti i minuti e più l’ansia si è trasformata in emozione».

Ha giocato molto sull’idea della scatola che si apriva.
«Sono amante dell’architettura e delle luci, quindi è stato logico per me immaginare di aprirla, con queste barre luminose che si accendevano raccontando una storia. La storia di Laura».

Non pensa che, in fin dei conti, tutte le performance dal vivo di un artista equilvagano ad aprire una scatola?
«È importante far capire che non dobbiamo sottovalutare l’aspetto estetico di una performance e che si può lavorare di immaginazione per creare delle emozioni in maniera diversa. In America lo sanno, e Laura ha colto questo spirito: voleva che costruissi intorno a lei una scena che fosse sua».

In Italia qualcosa, in questo senso, si sta pian piano muovendo, non crede?
«A X Factor ho avuto la possibilità di giocare e di mettermi alla prova: è un punto di riferimento perché permette di tirare fuori quel tipo di linguaggio. Via via che passa il tempo, gli artisti sentono sempre di più il bisogno di avvicinarsi a questo tipo di comunicazione».

Perché ci abbiamo messo tanto, secondo lei?
«Forse mancava il coraggio, e c’era la paura di sbagliare. In passato sono stati fatti degli errori e, magari, si aveva paura di ripeterli. È comunque un impegno: con Laura ci siamo detti che sarà da esempio a tanti. Si può fare».

Il suo primo contatto con Laura è stato in America, giusto?
«Per una coincidenza ero a New York, ho letto che c’era Laura live al Radio City Music Hall e sono andato a vederla. Finito il concerto, ho scelto di non raggiungerla in camerino perché volevo rimanere con questa immagine impressa negli occhi. Quando mi ha chiamato per dirmi che sarebbe andata a Sanremo e che avrebbe voluto andarci con una mia idea non ci potevo credere».

A Sanremo avrà incrociato i Måneskin: la loro messa in scena al Saturday Night Live l’ha curata lei.
«Avevano bisogno di una mano, volevano firmare la loro performance in qualche modo. Ho lavorato da remoto, mandando idee, e ce l’abbiamo fatta».

Tornando al concetto di scatola, quand’è che in lei si fa largo la voglia di fare questo mestiere?
«Non pensavo che da grande avrei fatto questo, lo consideravo una passione. Ho iniziato con la moda: la danza è arrivata tardi. Quando mi sono trovato su un palco importante per la prima volta – ho iniziato a ballare con Tiziano Ferro ai suoi inizi -, ho capito che un’emozione così non l’avevo mai provata e che l’avrei voluta sentire tutti i giorni della mia vita. Nel mezzo, ci sono state tante cose e tanta gavetta, che è stata necessaria per arrivare fino a qui».

E da piccolo cosa voleva fare?
«Il veterinario. Poi ho studiato Interior Design perché mi piaceva l’architettura: cosa che ho portato indirettamente nel mio lavoro».

Ha lavorato all’estero, Sorrentino l’ha chiamata 2 volte perThe New Pope e i due film di Loro: ha un punto di arrivo?
«Ogni esperienza pensavi sempre che non potesse arrivare e non potesse accadere. Non mi pongo un obiettivo, mi piace sia fare le cose grandi che le cose piccole. È il piacere di fare che mi dà soddisfazione».

ARTICOLO DI: Mario Manca

FONTE: Vanity Fair